The most exciting phrase to hear in science, the one that heralds the most discoveries, is not "Eureka!", but "That's funny..." (Isaac Asimov)

sabato 16 gennaio 2010

Verona, Arte e Cervello

InfinitaMente e Alchimie dell'Arte

Via Galileonet (1 e 2) segnalo due appuntamenti veronesi interessanti in particolare per chi si appassiona a Mente e Cervello, ma che potrebbero risvegliare l'interesse anche di molti profani.

InfinitaMente è un festival di Arti e Scienze giunto alla sua seconda edizione dedicato al Cervello e alla Coscienza, che si terrà dal 28 al 31 Gennaio e che prevede ben 35 conferenze, tra gli altri: Edoardo Boncinelli del San Raffaele di Milano, Paolo Legrenzi, Mario Allegri, Gianfranco Biondi ed Emanuele Severino. Tra i grandi nomi "ospiti" anche Paolo Conte (parla delle "follie dell'arte" e potrebbe uscirne anche qualcosa di buono, a me lui piace come artista e chissà).

Il programma sembra molto vario ma (a parte la prima giornata dedicata a (???) Leonardo da Vinci decisamente "brain geek", ma ve lo lascio scoprire sul sito del festival.

sul sito del comune di Verona trovate qualche altra informazione utile, in particolare salta all'occhio la proiezione di tutti gli episodi della prima serie di "Ai confini della realtà" ("the Twilight Zone") di Rod Serling come evento collaterale alle conferenze (e non è l'unico).


Alchimie dell'Arte apre oggi e dura fino al 31 Gennaio (quindi volendo potete mettere assieme le due cose se venite da fuori Verona come me) e mette in mostra oltre 400 opere di 43 artisti diversi accumunati da un particolare: tutti quanti erano sotto cura psichiatrica quando hanno dipinto i quadri (immagino che molti lo siano tuttora peraltro). Il compito di allestire questa insolita esposizione è stato affidato a Daniela Rosi dell’Osservatorio di Outsider Art dell’Accademia di Belle Arti di Verona, che ha letteralmente pescato questi quadri dalle "collezioni private" di neurologi e psichiatri, che spesso utilizzano delle forme d'arte come terapia. La curatrice ci tiene a precisare che il criterio di selezione delle opere è stato puramente artistico e che “Si tratta delle varie manifestazioni del talento artistico e non di altro. E’ difficile rinvenire l’elemento patologico nei quadri di questi artisti e anche dove c’è la reiterazione ossessiva di un elemento sembrerebbe più ovvio parlare di esercizio di stile piuttosto che di mania”; sia quel che sia, sono sicuramente opere molto diverse da quelle che si possono trovare in un atelier convenzionale.

venerdì 15 gennaio 2010

Sempre meglio che morire giovani

Come e perché invecchiamo
pezzo originalmente pubblicato su Pikaia


Tra le tante caratteristiche tipicamente umane una in particolare è forse meno conosciuta ma non per questo meno importante, anzi, probabilmente è l'ultima a cui molti rinuncerebbero: comparata a quella degli altri primati la durata della nostra vita è molto più estesa. Se noi riusciamo a superare agevolmente i 70 anni e talvolta anche i 100, solo raramente gli scimpanzé e le altre antropomorfe riescono a sopravvivere oltre i 50 anni. Considerate le notevoli risorse investite nel corso degli ultimi anni nella ricerca sui processi dell'invecchiamento era facile aspettarsi qualche indizio su come questo prolungamento della vita media sia potuto accadere ai nostri antenati, e proprio in questa direzione ci porta la recente ricerca pubblicata su PNAS da Caleb Finch, professore presso la Davis School of Gerontology e la University of Southern California.

Tutto comincia con il consumo di carne che diventando man mano più rilevante ha richiesto ai corpi dei nostri antenati una serie di aggiustamenti. Più carne significa anche più colesterolo e trigliceridi, e per questo motivo nel nostro sangue è presente una versione speciale dell'apolipoproteina E (utilizzata anche dagli altri primati per lo stesso scopo), che ci permette di gestire questa dieta tanto particolare per un primate. Il gene che specifica questa proteina, ApoE, scherma inoltre il nostro corpo anche dall'azione dei numerosi parassiti e dalle infezioni che il consumo di carne cruda, a volte recuperata da carcasse in decomposizione, può portare con sé. Tutto bene finora, non fosse che questo gene è polimorfico e presente nella popolazione essenzialmente in tre forme: ApoE2, ApoE3 e ApoE4. Se ApoE3, presente nella maggior parte della popolazione umana, è tanto efficacie nelle maniere sopra descritte, lo studio di Caleb Finch ci svela qualcosa di precedentemente poco conosciuto sulla forma ApoE4. Questa sembra essere fortemente implicata, oltre che con una minore efficienza nello sviluppo neuronale, proprio nei malanni “tipici” della vecchiaia: problemi di cuore, sindrome di Alzheimer e demenza senile.


La spiegazione di Finch riguardo a questo fenomeno è particolarmente suggestiva e tira in ballo una delle teorie più generali sulla parte terminale della nostra vita, la teoria cosiddetta “antagonista” dell'invecchiamento. Secondo questa ipotesi i geni che ci aiutano in gioventù, in questo caso nel limitare gli effetti negativi che il consumo di carne, importante per altri versi, ha portato con sé, possono essere responsabili di tutti quei disagi della vecchiaia per i quali spesso è difficile trovare una spiegazione. ApoE sembra essere, quantomeno per Finch, un esempio perfetto di questo meccanismo: qualche sacrificio nella vecchiaia per avere in cambio qualche anno in più di giovinezza.


Riferimenti:

Caleb E. Finch, "Evolution of the human lifespan and diseases of aging: Roles of infection, inflammation, and nutrition", PNAS, Published online before print December 4, 2009, doi:10.1073/pnas.0909606106


giovedì 14 gennaio 2010

Un gene per capire il nostro linguaggio

Nuove informazioni dal FoxP2

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia


Di tutte le caratteristiche che vengono in diversa misura considerate simbolo e prerogativa della nostra specie quella che raccoglie il maggior numero di “adepti” è certamente il lingaggio, e a ragion veduta! si tratta davvero di una delle caratteristiche più importanti che possediamo, e la nostra intera vita sarebbe difficilmente immaginabile senza di esso (per questo le patologie che lo riguardano sono particolarmente difficili da affrontare). Per questo motivo si comprende facilmente il notevole interesse seguito alla scoperta avvenuta nel 2001 di un gene, denominato FOXP2, strettamente correlato ad esso. I responsabili della scoperta, studiando una famiglia che presentava generazione dopo generazione (con distribuzione tipicamente mendeliana, indicante quindi l'azione di un gene solo) uno dei disturbi linguistici più frequenti, lo Specific Language Impairment (in italiano il Deterioramento Linguistico Specifico), riuscirono a individuare in questo gene il “responsabile” della sindrome ereditata. Più precisamente, era il suo malfunzionamento dovuto a una mutazione a causare il deterioramento linguistico, e proprio questo lo rende così importante per lo studio del linguaggio umano.

Ulteriori prove della sua importanza sono venute in tempi più recenti da studi ad ampio spettro sulle differenze tra il nostro genoma e quello degli altri animali. Si è trovato difatti che proprio la regione comprendente il FOXP2 è una di quelle che, altamente conservate negli altri vertebrati compresi gli scimpanzé (gli animali viventi più simili geneticamente a noi), sono mutate notevolmente all'interno della linea filetica ominide. Fino ad ora del gene FOXP2 si sapeva solo che è importante nel permettere i complessi movimenti muscolari che consentono i movimenti della bocca sottesi al linguaggio umano, ma proprio lo studio svolto da un team dell'Università della California capitanato da Daniel Geschwind assieme alla Emory University, da poco pubblicato su Nature, porta nuovi e interessanti dati al riguardo.

Partendo dalla considerazione che c'è una differenza di soli due amminoacidi nella proteina espressa dai geni FOXP2 di umani e scimpanzé, il gruppo di ricerca ha deciso di compiere un'analisi ad ampio raggio del gene, valutandone le complesse interazioni con gli altri geni, per comprendere l'effettiva portata di questa variazione per quanto riguarda la funzionalità del gene. Numerose analisi, sia in vitro che in vivo su porzioni di tessuto cerebrale di uomo e scimpanzé, hanno portato a risultati decisamente interessanti che confermano come le mutazioni occorse nello nostra linea filetica dopo che i nostri antenati si distaccarono da quelli degli scimpanzé abbiano portato notevoli differenze nella funzionalità del gene. Più in particolare FOXP2, in maniera molto diversa in umani e scimpanzé, regola lo sviluppo di certe specifiche aree sia della corteccia cerebrale (più precisamente zone considerate tra quelle responsabili del linguaggio e di altre abilità cognitive) sia dello striato, un area subcorticale del telencefalo coinvolta sia nella cognizione che nella coordinazione dei movimenti. Ancora più interessante è l'altro aspetto dei risultati ottenuti da Geschwind e colleghi: FOXP2 ha un ruolo centrale in una complessa rete di geni, che si regolano a vicenda “accendendosi” e “spegnendosi” nei momenti opportuni. Proprio questi geni, “collaborando” tra loro, sono quindi almeno in parte i responsabili dello sviluppo di uno dei talenti più famosi e celebrati della nostra specie, un talento di cui ora sappiamo molto più.



Riferimenti:




lunedì 11 gennaio 2010

Scimmie e sintassi

Parole da primate

pezzo originalmente pubblicato su Pikaia


Chiedete a un bambino cosa sia lo “scimmiese” e lui non esiterà un secondo a rispondervi che è il linguaggio segreto che le scimmie usano tra di loro e noi non riusciamo a comprendere. Crescendo si impara che il linguaggio è una caratteristica posseduta solo dalla nostra specie, una sorta di confine che ci divide dagli altri animali, ma i recenti risultati ottenuti in Costa d'Avorio potrebbero rendere perlomeno più liquido, meno netto, questo confine. La comunicazione animale difatti è da sempre considerata rigida, in contrasto al flessibile linguaggio umano, e formata da richiami determinati e strettamente associati a stimoli ambientali; anche il celebre lavoro di Cheney e Seyfart sui cercopiteci grigioverdi, le prime scimmie tra le quali si scoprì la presenza in contesto naturale di segnali specifici per singoli predatori (che potevano quindi essere interpretati come frutto di una scelta semantica da parte dell'emittente), è stato perlopiù considerato come un elaborato sistema di reazione “rigida” a stimoli precisi. Il sofisticato sistema di comunicazione scoperto da Karim Ouattara e Alban Lemasson del Ethologie Animale et Humaine research group (CNRS / Université de Rennes 1), in collaborazione con Klaus Zuberbühler dell'Università di St. Andrews tra le scimmie di Campbell in Costa d'Avorio sembra però possedere caratteristiche troppo complesse perché ci si possa accontentare della spiegazione classica; il linguaggio umano, ancora ovviamente unicamente umano, sembra quindi avere dei precursori (o comunque delle versioni ipersemplificate), anche al di fuori del ristretto gruppo formato da noi e dai nostri antenati più prossimi.

In Novembre, con un articolo pubblicato su PlosOne, il team di ricercatori ha esposto per la prima volta il repertorio di sei vocalizzazioni tipiche di questa specie di scimmie arboricole, che probabilmente proprio per questa difficoltà nel contatto visivo data dal loro habitat sono portate alla comunicazione vocale. In particolare sono state analizzate le vocalizzazioni emesse dai maschi di sei gruppi di scimmie di Campbell (all'interno dei quali è presente un solo maschio che vive in posizione periferica), tre dei quali abituati alla presenza dell'uomo. I risultati ottenuti con l'osservazione diretta sono stati poi confermati da esperimenti di stimolazione, con manichini a forma di predatore o con registrazione degli stessi richiami o dei richiami delle scimmie di Diana, una specie che vive a stretto contatto con le scimmie di Campbell.
Questi sei richiami, un numero peraltro già di per sé rilevante, presentano già da soli interessanti indizi di una capacità sintattica, e in particolare due di loro sembrano derivare da altri due tramite un processo di “affissazione”. Come per molte parole delle lingue umane, infatti, i due richiami “krak-oo” (generico disturbo) e “hok-oo” (generico disturbo proveniente dagli alberi) presentano una radice, “krak” e “hok”, che a sua volta ha un significato diverso se usata singolarmente come richiamo (significati peraltro più precisi, rispettivamente “leopardo” e “aquila”); il suffisso “oo” appare quindi come in grado di rendere più generale un richiamo specifico. Le altre due vocalizzazioni in repertorio sono “boom”, usato solo in contesti non-predatori, e “wak-oo”, dall'utilizzo molto simile a “hok-oo” (l'unica differenza sembra essere che questo, a differenza di “hok-oo” non viene mai utilizzato per segnalare la presenza di altri gruppi vicini). Una possibile conferma ulteriore di questa funzione “generalizzatrice” svolta dal suffisso “oo” sembra venire da un ulteriore esperimento svolto dagli stessi ricercatori: facendo ascoltare alle scimmie di Diana, che come già detto condividono spesso l'habitat delle scimmie di Campbell, questi stessi richiami si è scoperto che queste reagiscono al richiamo “specifico” ma non comprendono il richiamo “generalizzato”; non hanno quindi imparato la funzione del suffisso “oo” o non sono in grado di comprendere delle regole sintattiche (come ci si aspetterebbe se queste fossero effettivamente presenti nel repertorio vocale delle scimmie di Campbell).


Un mese dopo il primo articolo gli autori hanno aggiunto nuove informazioni su questo complesso sistema di comunicazione, questa volta su PNAS. Continuando le osservazioni su questa specie di scimmie arboricole, i ricercatori hanno scoperto come raramente i richiami vengano lanciati singolarmente: nella stragrande maggioranza delle volte le sei vocalizzazioni vengono combinate tra loro in lunghe sequenze contenenti in media venticinque di loro. In questa maniera una specie caratterizzata da una scarsa flessibilità vocale (l'uomo è un eccezione nell'ordine dei primati, grazie a un peculiare apparato fonatorio) riesce a veicolare informazioni sorprendentemente complesse rispetto a quelle che ci si attenderebbe, “modulando” un messaggio grazie alla capacità di concatenare più vocalizzazioni in sequenze. Questo studio, che sicuramente non finisce qui ma promette nuovi interessanti sviluppi nei mesi e anni a venire, si inserisce in una serie oramai cospicua di scoperte che hanno modificato la nostra concezione della comunicazione animale: lungi dall'essere un frutto tardivo sbocciato improvvisamente sul ramo umano, alla periferia del cespuglio primate, il linguaggio in senso lato, ovvero la capacità di elaborare segnali complessi, grammaticali e semantici, sembra una caratteristica multiforme e diffusa perlomeno in altri rami dell'ordine dei primati. Se è indubbiamente vero che noi siamo la specie che lo ha sviluppato ai massimi termini, tanto che si fa fatica a paragonare la nostra produzione linguistica al resto della comunicazione animale, pure molte delle sue caratteristiche hanno, a quanto pare, una storia molto più antica della nostra.


Riferimenti:

Karim Ouattara, Alban Lemasson & Klaus Zuberbühler, “Campbell's Monkeys Use Affixation to Alter Call Meaning”, PLoS ONE 4(11): e7808. doi:10.1371/journal.pone.0007808